
Perché il cinema è nato muto
Oggi diamo per scontata, in un certo senso, la musica nei film. Spesso quasi non la notiamo perché è perfettamente incollata alle immagini che vediamo, a volte invece ne apprezziamo coscientemente l’efficacia (o inefficacia), o l’effetto di contrasto.
E nella stragrande maggioranza delle pellicole la colonna sonora gioca un ruolo importantissimo; ma non è sempre stato così.
Com’è noto, il cinema è nato muto, perché le prime cineprese erano incapaci di registrare (e i proiettori di riprodurre) suoni, ma solo sequenze di immagini. Solo per modo di dire ovviamente, visto che stiamo parlando di una tecnologia assolutamente nuova alla fine del XIX secolo. August e Louis Lumière cambiarono il mondo inventandola, e personaggi come Georges Méliès ne seppero sfruttare le potenzialità creando storie incredibili ed effetti speciali creativi e spassosi; ma stiamo sempre parlando di pure sequenze di immagini, dove non c’era spazio per il suono.
L’effetto che poteva fare un “film silenzioso” possiamo sperimentarlo guardando il seguente video.
Il problema di essere muto
Che effetto ci ha fatto? Ovviamente siamo immuni dal grande stupore che poteva pervadere uno spettatore di fine Ottocento, ma potremmo aver notato una o più di queste cose:
- i rumori attorno a noi, che potrebbero averci distratto dalla visione. Pensiamo, ad esempio, che i primi proiettori erano meccanici e a manovella, quindi ottenere in sala un silenzio sufficiente era praticamente impossibile;
- le immagini ci appaiono distanti, in un’altra dimensione, perché nella realtà ogni movimento è accompagnato da suoni. Potremmo definirlo effetto acquario, che rende l’idea di qualcosa che accade dietro ad uno spesso vetro, e a noi inaccessibile;
- piattezza e insufficienza delle immagini: venendo interpretate dalla sola vista, esse non sono tridimensionali, quindi sono poco realistiche e non ci coinvolgono completamente. Perfino da bambini accompagniamo istintivamente le azioni dei nostri personaggi a suoni fatti “con la bocca”, per immergerci di più nel gioco.
Si può quindi benissimo comprendere perché al cinema servisse qualcosa per diventare pienamente fruibile; il problema era capire cosa.
Soluzioni (im)possibili
Come già accennato, la presa diretta dei suoni era da escludere: le cineprese non potevano riprenderli, perché all’epoca le registrazioni avvenivano esclusivamente tramite coni/corni acustici (i microfoni ancora non esistevano), e il risultato era molto debole e approssimativo soprattutto in termini di fedeltà. Per dare un’idea più precisa: le frequenze registrabili con i mezzi di allora spaziavano tra i 250 e 2.500 Hz, mentre l’orecchio umano percepisce tra i 20 e i 20.000 Hz… una differenza abissale. E anche riuscendo a riprendere i suoni, non c’era ancora modo di imprimerli tecnicamente nella pellicola, accoppiando il segnale audio a quello video.
Che fare quindi? Utilizzare proiettore e fonografo in sincrono, azionandoli insieme, non era una soluzione: essendo entrambi strumenti meccanici a velocità non proprio fissa (spesso a manovella), rendeva impraticabile coordinare a dovere supporto visivo e sonoro.
Per quest’ultima ragione, anche il doppiaggio era da escludere: anche ammesso che la registrazione di voci fosse risultata più fedele dei deboli suoni d’ambiente, non avrebbe potuto essere sincronizzata alle immagini. E le sole voci non sarebbero nemmeno state sufficienti, perché i rumori sono una parte fondamentale di quello che il nostro orecchio percepisce.

Musica dal vivo, cinema più vivo
Scelta obbligata, ma davvero funzionale, fu quindi l’utilizzo della musica dal vivo. Avrebbe potuto commentare ciò che accadeva sullo schermo assecondando, enfatizzando, sottolineando, dando il giusto ritmo, e fornendo una continuità narrativa all’opera passando da una sequenza all’altra.
Uno o più esecutori, dal pianoforte solo a piccoli ensemble, cominciarono a diventare indispensabili nelle sale cinematografiche, arricchendo le opere proiettate. I musicisti costruivano le colonne sonore dei film, attingendo molto spesso al repertorio classico, operistico e popolare, sia per motivi di tempo che per mancanza di creatività.
La cosa interessante è che la stessa pellicola aveva virtualmente un commento sonoro differente, e anche molto, durante ogni proiezione. Un pianista, ad esempio, avrebbe potuto essere scontento del brano pensato per una determinata sequenza e cambiarlo la sera dopo. E uno stesso film, musicato da un altro esecutore, poteva venire commentato in un modo completamente diverso.
Si può intuire già da questa piccola riflessione la rilevanza che poteva rivestire la colonna sonora di una pellicola, e il potere che un musicista aveva, in termini di valorizzazione di un’opera.

Musica “da manuale”
Ma si capisce anche il perché qualcuno pensò che occorreva uniformare, disciplinare la musica per film: già negli anni ‘10 cominciarono a circolare manuali e cataloghi di brani utilizzabili per le immagini, per orientare gli addetti ai lavori nella scelta della colonna sonora sulla base dell’atmosfera, dell’emozione, del tipo di azione, del ritmo di una scena/sequenza.
Il più famoso di questi fu l’Allgemeines Handbuch der Film-musik di Hans Erdmann, Giuseppe Becce e Ludwig Brav, del 1927. Il manuale propone centinaia di frammenti musicali (spesso non originali), elencati secondo parametri narrativi ed emotivi, allo scopo di ispirare e indirizzare i compositori nella scelta dei brani da utilizzare o comporre per una pellicola. Ma non solo: Erdmann riflette in maniera molto lungimirante sul ruolo di musica e compositore in un film, distinguendo tre tipi di colonna sonora:
– illustrazione, in pratica la compilazione a partire dalla scelta di brani già esistenti;
– illustrazione d’autore, dove i brani sono scritti appositamente per la pellicola;
– composizione, che è opera collettiva nata dalla collaborazione di registra e compositore.
Un esempio di artista dedito all’ultimo tipo di pratica era Charlie Chaplin, che collaborava strettamente con i compositori o gli orchestratori nelle sue opere, spesso creando lui stesso temi destinati a diventare celebri, come “Smile”. Alcune colonne sonore sono interamente accreditate a lui, come quella di Tempi moderni.
L’approccio opposto (illustrazione) è stato adottato da cineasti come Pier Paolo Pasolini, Stanley Kubrick, Woody Allen e Quentin Tarantino, che utilizzano molto spesso esclusivamente brani già esistenti dal mondo della classica, del jazz, della cultura popolare e oltre.

Come si vede, sono tutti brani di musica colta, nessuno di essi composto per il film.
Ma la maggioranza dei registi si affida ai compositori e alla loro sensibilità, anche perché il cinema nel corso degli anni ha sviluppato numerose specializzazioni, e ognuna di esse richiede abilità tecniche e spesso una dose di creatività che può risultare determinante. Il montaggio e la fotografia, ad esempio: sebbene molti cineasti siano senz’altro capaci di occuparsene, preferiscono demandare ad altri professionisti specializzati che sono spesso dei veri artisti. Proprio come la musica.
E normalmente un film, che è opera collettiva, ci può senz’altro guadagnare dalla “divisione dei compiti”, perché ogni tassello è più significativo se chi se ne occupa ha competenza e autonomia creativa. La musica l’ha da subito affermato forte e chiaro, donando tridimensionalità allo schermo silenzioso e traendo da esso nuovi stimoli ed energie.
Fonti
Il fotogramma in copertina (Vingt mille lieues sous les mers, Georges Méliès, 1907) è di dominio pubblico.
La foto del fonografo è di Don Shall
https://www.flickr.com/photos/donshall/6973146567
Licenza CC BY-NC-ND 2.0
La scena de “La palla n. 13” è il fotogramma di una GIF da https://gifer.com/en/QsZO
La tracklist di 2001: a Space Odissey è tratta da www.discogs.com