La colonna sonora “non originale”

Un fotogramma di “Apocalypse Now”.

Nel precedente articolo “Cinema e Musica: quando e perché” avevamo accennato alla scelta registica di compilare la colonna sonora del proprio film selezionando musiche già esistenti. Nel suo Allgemeines Handbuch der Film-musik, il compositore Hans Erdmann definiva questo procedimento illustrazione, e senza dubbio negli anni ’20 si trattava di una tendenza molto in voga: ricordiamo infatti che già prima dell’avvento del sonoro nel cinema (e nei cinema) le pellicole venivano spesso accompagnate da brani “rubati” dal repertorio classico, operistico e popolare, e l’usanza proseguì.

Il potere evocativo

Probabilmente la ragione principale per utilizzare una musica già esistente risiede nel suo potere evocativo, a partire da quello che esercita nella mente del regista. Spesso infatti, i cineasti immaginano una sequenza commentata da uno specifico brano in grado di fornirgli un’emozione specifica, o di immergere l’ascoltatore in una determinata atmosfera.
Facciamo un paio di esempi.

La cavalcata delle Valchirie di Richard Wagner è stata impiegata in molte opere, anche se l’utilizzo più famoso rimane probabilmente quello di Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979). È una musica iconica perché davvero in grado di trasmettere eroismo, grandiosità, maestosità; e perfetta a livello filmico, perché dipinge talmente in modo efficace queste sensazioni che quasi le immagini diventano suo complemento.

“La cavalcata delle Valchirie” (Richard Wagner), dall’opera Die Walküre (La Valchiria)

Una canzone come “What a Wonderful World” (Bob Thiele, George David Weiss) è stata utilizzata svariate volte nel cinema. Perché? Innanzitutto, probabilmente per la sua popolarità: praticamente in ogni Paese del pianeta verrà riconosciuta, e quindi avrà un carattere di universalità. E ascoltare qualcosa che già conosciamo normalmente causa in noi una sorta di soddisfazione: un po’ come da bambini provavamo piacere a rivedere un cartone animato o a farci raccontare per l’ennesima volta la stessa fiaba.
L’interpretazione di Louis Armstrong, il testo, il suono morbido dell’orchestra rendono il brano un manifesto di dolcezza e positività difficile da contestare. Ed è per l’evocazione di sentimenti come umanità, empatia, amore universale e serenità che viene scelta dai cineasti, qualunque sia il contesto in cui appare.
Robin Williams interpreta il presentatore radiofonico di “Good Morning Vietnam” (Barry Levinson, 1987), che trasmette la canzone mentre sullo schermo scorrono immagini di mezzi militari, esecuzioni, bombardamenti, manifestazioni, soldati e vittime della guerra in atto. Chiaro il contrasto, anche sarcastico (“Che mondo meraviglioso”), tra ciò che si vede e ciò che si ascolta.
In “12 Monkeys” (“L’esercito delle 12 scimmie”, Terry Gilliam, 1995) James Cole (Bruce Willis) si commuove come un bambino ascoltando il brano all’autoradio durante la fuga in auto con la dottoressa Railly (Madeleine Stowe). Lo spettatore conosce l’epoca da cui arriva Cole, un futuro in cui gli uomini vivono in un mondo sotterraneo e senza musica, e la sequenza dell’auto è in grado di creare una forte empatia nei confronti del protagonista anche grazie alla canzone. Sì, il mondo in cui è ora Cole è davvero meraviglioso, confrontato con quello a cui è abituato.

Il contesto

Unitamente al potere evocativo, un brano musicale che fa parte dell’immaginario collettivo può essere indicatore di almeno tre tipi di contesto: il contesto storico, quello sociale e quello culturale.
Il primo si riferisce chiaramente al periodo in cui la musica è stata scritta e/o prodotta: il barocco, per esempio, nell’ambito della musica colta ha determinate caratteristiche stilistiche, tecniche ed estetiche molto specifiche. La dance degli anni ’70 ha un suono inconfondibile, come pure il pop del decennio successivo, fondato sull’utilizzo dell’elettronica. Insomma, il cosiddetto sound può darci indicazioni storiche.
Alcuni generi hanno poi un deciso connotato sociale. Pensiamo al blues e al rap, nati nei sobborghi statunitensi per dar voce agli emarginati di colore, al tango, che veniva suonato (ma soprattutto ballato) clandestinamente, al punk, strumento di lotta politica contro le istituzioni.
Consideriamo poi elementi come gli strumenti, l’armonia, il ritmo: sono fattori culturali spesso “importati” in un luogo da un altro e che influenzano lo sviluppo di un genere nuovo. La bossa nova, ad esempio, nacque in Brasile dalla fusione tra jazz e samba, ma quest’ultimo già aveva avuto origine da elementi autoctoni più altri africani, e lo stesso jazz era figlio del blues, del ragtime, del gospel.

Conclusioni (?)

Associare un pezzo musicale già esistente ad una sequenza di immagini può suscitare quindi diverse reazioni. Vediamo cosa succede in queste tre sequenze tratte da altrettanti capolavori del cinema.
In Manhattan (Woody Allen, 1979), Isaac (W. Allen) cerca di convincere Tracy (Mariel Hemingway) a non partire per Londra. Le note di Rhapsody in Blue di George Gershwin sottolineano l’emotività della scena con dolcezza, e un tocco di ironico e puntuale patetismo, prima del finale trionfante che ci allontana dai grattacieli newyorchesi e introduce i titoli di testa. L’orchestra e la scrittura di Gershwin a cavallo tra classica e jazz ci tuffano, come il bianco e nero, in un passato recente, o in un mondo senza tempo, ma in ogni caso americanissimo.
Di Accattone, (Pier Paolo Pasolini, 1961), lo stesso regista ha ben spiegato: «ho voluto rappresentare la degradazione e l’umile condizione umana di un personaggio che vive nel fango e nella polvere delle borgate di Roma. Io sentivo, sapevo, che dentro questa degradazione c’era qualcosa di sacro, qualcosa di religioso in senso vago e generale della parola, e allora questo aggettivo, ‘sacro’, l’ho aggiunto con la musica.1»
E le note di Johann Sebastian Bach (dalla Passione secondo S. Matteo BWV 244) associate al famoso pestaggio creano un contrasto potentissimo.
2001: a Space Odyssey (2001: Odissea nello spazio, Stanley Kubrick, 1968) è stato il primo film a mostrare immagini di astronavi “silenziose”. Nel vuoto dello spazio manca infatti il conduttore che permette al suono di propagarsi, e quindi il regista statunitense ebbe l’idea di accompagnare la “danza” di veicoli e umani con brani come Sul bel Danubio Blu di Johann Strauss. La sensazione che trasmette la “sequenza della penna” è di elegante e lussuosa leggerezza.


FONTI

1 Pier Paolo Pasolini, Bianco e nero, anno XVIII – n. 3-4 (Roma,
marzo/aprile 1967)

Pubblicato da Alessandro Sicardi

Compositore, appassionato (e studioso) di cinema.